Con la sentenza n. 30039, pubblicata il 21 novembre 2018, la Corte di Cassazione ha fornito nuovi ed interessanti spunti interpretativi in materia di motivazione “per relationem” dell’avviso di accertamento, il cui obbligo – come noto – è normativamente previsto dall’art. 7, c. 1, dello Statuto dei diritti del Contribuente.
La pronuncia in analisi giunge a conclusione di un contenzioso scaturente da un avviso di rettifica e liquidazione, in forza del quale l’Amministrazione finanziaria contestava, con specifico riguardo alla compravendita di un bene immobile, l’applicazione dell’aliquota IVA ridotta al 4% (prevista dalla Tabella A, parte II n. 21, allegata al d.P.R. n. 633 del 1972). In particolare, nella parte motiva del provvedimento impositivo, l’Ufficio – qualificando l’immobile de quo alla stregua di un c.d. bene di lusso – riteneva illegittima l’applicazione dell’aliquota agevolata, richiamando – a fondamento delle proprie argomentazioni – un parere dell’Agenzia del Territorio il quale, tuttavia, non veniva allegato all’atto di accertamento.
La contribuente proponeva rituale impugnazione dinanzi la competente CTP, lamentando – con specifico riguardo ai profili motivazionali – la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 21 septies della legge n. 241/1990, nonché dell’art. 7 legge n. 212/2000 e dell’art. 56, c. 5, d.P.R. n. 633/1973; a tal proposito, rappresentava che la mancata allegazione del parere emanato dall’Agenzia del Territorio, non conosciuto né facilmente reperibile, aveva di fatto reso impossibile il pieno esercizio del di lei diritto di difesa, con conseguente illegittimità dell’azione accertatrice posta in essere dall’Ente impositore, concepita proprio sulla base delle valutazioni contenute nel documento di cui trattasi.
Alla sentenza emanata dalla CTP di Roma (la quale, in accoglimento delle difese della ricorrente, disponeva l’annullamento dell’atto impugnato poiché ritenuto non sufficientemente motivato) faceva seguito la proposizione dell’appello da parte dell’Agenzia delle entrate, con il quale l’Ufficio ribadiva la correttezza del proprio operato e, per l’effetto, lamentava l’erroneità della decisione assunta dal primo Collegio. La CTR per il Lazio, in riforma della pronuncia emessa dalla Commissione provinciale, confermava la legittimità dell’atto impositivo contestato.
Contro la sentenza d’appello la contribuente proponeva ricorso per Cassazione, affidato ad otto motivi, evidenziando in particolare la violazione di legge commessa dalla CTR nel decidere sull’eccezione, riproposta dall’A.f. nel corso del giudizio di secondo grado, in ordine alla valutazione circa la mancata allegazione del parere dell’Agenzia del Territorio, non conosciuto dalla ricorrente nemmeno nel contenuto.
Ebbene, con la sentenza oggetto di odierno approfondimento la Suprema Corte ha ritenuto fondate le argomentazioni attinenti alla violazione degli oneri motivazionali dell’atto impositivo, ed ha colto altresì l’occasione per tracciare (nuovamente) una netta linea di demarcazione tra due differenti scuole di pensiero, maturate sul punto.
In tal senso infatti, dopo un breve richiamo alla teoria della c.d. provocatio ad opponendum (la quale, come noto, considera soddisfatto l’obbligo di motivazione ogniqualvolta il contribuente sia posto nelle condizioni di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali), la Corte di Cassazione ha ritenuto di dar nuovamente seguito a quell’orientamento di legittimità secondo cui «nel procedimento tributario, la motivazione dell’avviso di accertamento assolve ad una pluralità di funzioni, che garantisce il diritto di difesa del contribuente, delimitando l’ambito delle ragioni deducibili dall’ufficio nella successiva fase processuale contenziosa. Ciò consente una corretta dialettica processuale, presupponendo l’onere di enunciare i motivi di ricorso, a pena di inammissibilità, e la presenza di leggibili argomentazioni dell’atto amministrativo, contrapposte a quelle fondanti l’impugnazione, e, infine, assicura, nel rispetto del principio costituzionale di buona amministrazione, un’azione amministrativa efficiente e congrua alle finalità della legge, permettendo di comprendere la “ratio” della decisione adottata».
Dal principio di diritto appena richiamato, ritenuto dalla Suprema Corte «maggiormente convincente» rispetto alla già richiamata teoria della provocatio ad opponendum, discende la conseguenza che, a parere del Giudice di legittimità, «dev’essere escluso ogni formalismo nell’indicazione delle norme di diritto violate, quando chiaramente evincibili, e di tutti gli elementi di prova, eventualmente integrabili in sede di giudizio purché siano indicati gli elementi di fatto e istruttori del procedimento. In altri termini, dalla motivazione dell’avviso deve emergere una fedele e chiara ricostruzione di tutti gli elementi costitutivi dell’obbligazione tributaria, così da consentire una adeguata, efficace e piena difesa in giudizio».
Per tale ragione, prosegue la Corte, l’interpretazione delle norme in materia di motivazione non può dilatarsi «al punto da rendere l’avviso contenente la ripresa a tassazione astratto e avulso dalla ricostruzione degli elementi concreti fondanti l’obbligazione tributaria, ossia rendere sufficiente una causa petendi meramente processuale, ampiamente integrabile con gli elementi di fatto e probatori della fattispecie concreta in sede di eventuale, successiva, impugnazione giudiziale. […] Dunque, la motivazione dell’atto deve compiutamente indicare anche la causa petendi, enon può esaurirsi nell’enunciazione di una imposizione fiscale di per sé, soggetta a verifica processuale eventuale ex post, ma deve dare conto degli elementi di fatto ed istruttori procedimentali e del fondamento di legalità che rendono da un lato trasparente il buon andamento (art. 97 Cost.) e, dall’altro, contribuiscono in modo potente alla deflazione del contenzioso in materia tributaria, rendendo subito pienamente controllabile l’operato della Pubblica Amministrazione».
In altri termini, a parere di chi scrive, dall’insegnamento della Suprema Corte se ne ricava il principio secondo cui ogni provvedimento impositivo può ritenersi adeguatamente motivato soltanto qualora il contribuente sia posto nella condizione di conoscere – con esatta precisione e sin dalla fase della notifica dell’atto – la pretesa impositiva formulata a suo carico, individuata sia nel suo “petitum” che nella sua “causa petendi”.
In tale contesto, l’obbligo di motivazione potrà considerarsi assolto soltanto attraverso una fedele e dettagliata ricostruzione degli elementi costitutivi dell’obbligazione tributaria, la quale non può in alcun modo prescindere dall’eventuale allegazione di documenti e/o provvedimenti prodotti da terzi (ivi compreso, come nel caso di specie, il parere emesso dall’Agenzia per il Territorio), soprattutto se posti dall’Ufficio a fondamento del proprio convincimento.